Quel colpo era un “chiodo fisso” di Meneghetti


PADOVA

Sabato, 27 Gennaio 2007

Si è aperto ieri mattina dinanzi alla Corte d’assise il processo per il sanguinoso assalto messo a segno il 19 luglio 2005 all’oreficeria di Gianfranco Piras ad Abano

Quel colpo era un “chiodo fisso” di Meneghetti

Lo rivela il “pentito” Stefano Galletto, la cui confessione ha permesso di smantellare la nuova banda del Piovese

Rapinare quella gioielleria era un chiodo fisso di Fabiano Meneghetti. Ci faceva la corte almeno dalla primavera 2002. A rivelarlo è Stefano Galletto, pregiudicato di Dolo, la cui chilometrica confessione ha permesso di smantellare la nuova banda del Piovese sorta dalle ceneri dell’organizzazione criminale rimasta orfana del boss Felice Maniero.

Ed è proprio a Galletto che Meneghetti parlò del suo progetto all’indomani del fallito assalto ad un blindato della “Rovigo Controlli”.

Era il 3 maggio di quell’anno. La trappola a colpi di kalashnikov sulla bretella che collega la A13 all’autostrada Serenissima – nella quale si trovò coinvolta anche una famiglia americana in vacanza – non funzionò. I banditi, dopo un conflitto a fuoco durato per un chilometro, riuscirono a bloccare il portavalori crivellandolo di colpi. I vigilantes furono fatti scendere. Ma il detonatore che avrebbe dovuto fare esplodere il plastico appiccicato al portellone blindato fece cilecca costringendo i malviventi alla fuga.

Galletto era uno che contava molto nella banda. Faceva parte di quella sorta di triumvirato cui spettava scegliere gli obiettivi e decidere i colpi. Ha raccontato agli inquirenti che Meneghetti gli chiese l’autorizzazione a rapinare la gioielleria aponense e a usare come “tappamento”, cioè un luogo dove nascondere armi e mezzi, l’abitazione di Moreno Bruscaglin, in arte “pansa”, cinquantunenne di Brugine. E per spiegare meglio quale fosse la gioielleria da colpire collocata nell’isola pedonale, Meneghetti si profuse in un’ampia descrizione dei luoghi, facendo riferimento al piano bar che negli anni Ottanta era frequentato da parecchi malavitosi padovani e veneziani, ad un noto stabilimento termale, alla fontana. Avrebbe potuto fare un’irruzione, se non avesse trovato complici di pelo per un ingresso tranquillo. Galletto tentò di dissuaderlo. Era da pazzi andare a rapinare un negozio lasciando l’auto per la fuga troppo lontana.

A quell’epoca Meneghetti non navigava troppo bene quanto a denaro. Aveva appena lasciato la galera. Entrato in carcere appena diciottenne ne era uscito 10 anni dopo. Nel processo del 1994 contro la “banda del Brenta”, che il 31 agosto di quell’anno aveva rapinato un’agenzia postale di Modena ferendo tre fra poliziotti e passanti, durante la fuga conclusasi con un’altra sparatoria a Castelnovo Rangone, Fabiano Meneghetti si era beccato 10 anni e 3 mesi di reclusione, un anno meno di suo fratello Daniele. Era per questo che il sodalizio lo aiutava economicamente.

Riprese in mano il progetto nell’estate 2003, trovando sostegno nel fratello Angelo. Il primo passo fu rubare una Bmw. Ma a mettere loro i bastoni tra le ruote ci pensarono i carabinieri che scoprirono il “tappamento”, rinvenendo l’auto in un capannone adiacente alla casa di Moreno “pansa” Bruscaglin. Meneghetti riuscì a farla franca scappando a gambe levate per la campagna di Brugine. Pochi giorni dopo incontrò Galletto a Noventa e il capo in sostanza gli diede una sonora tirata d’orecchi. Era ancora in affidamento in prova ai servizi sociali e quello era il modo per tornare dentro. Ma quella gioielleria non voleva proprio togliersela dalla testa. Propose anche a Daniele Sarto, quarantenne pregiudicato di Fossò con un folto pedigree sulla schiena, di far parte della “batteria”. Ma declinò subito l’invito.

Stefano Galletto verrà a deporre in aula proprio su queste circostanze. Il suo nome appare al sessantunesimo posto nella lista dei testimoni prodotta dal pubblico ministero De Franceschi. E riferirà anche che abitualmente si incontrava con Meneghetti in piazza Giovannelli a Noventa, piuttosto che in un bar a Paltana, vicino all’impianto natatorio comunale. In alcune occasioni si fermavano a mangiare un boccone in una trattoria di Montegrotto.

Non trovando complici negli esperti nostrani, Meneghetti strinse un patto con i giostrai. Un déjà vu, come all’epoca di Faccia d’angelo. Li notarono al Bar Patronato di Tezze sul Brenta, alla Pasticceria Fiorin e alla pizzeria Al Centro di Brugine, alla Locanda di Salboro.

Gabriele Coltro

Quel colpo era un “chiodo fisso” di Meneghettiultima modifica: 2007-01-28T12:30:00+01:00da sagittario290