“Io, il Serpico dei graffiti infiltrato nel regno della coca”

CRONACA 

(8 dicembre 2008)

Milano, poliziotto writer da anni dà la caccia agli spacciatori
Ha ispirato anche un film: vite bruciate, vip e insospettabili

“Io, il Serpico dei graffiti
infiltrato nel regno della coca”

di PAOLO BERIZZI

stor_14562030_29190.jpgMILANO – C’è uno sbirro che si è infilato nel naso di Milano. La sua tana è uno stanzone pieno di quadri psichedelici (li dipinge lui) e di foto segnaletiche. Nelle viscere della questura: odore acido di eroina, di tramezzini delle macchinette, appena sconfezionati. Sul tavolo, una busta con 50 grammi di roba in sassi, due palline di coca, tre telefonini e una scheda.

Strilla il cellulare. “Questo è un informatore”. Sul display c’è scritto lollo. A sentirlo, amiconi: “Oh, come stai? – fa il poliziotto – Con tuo padre, poi, tutto bene?”. La talpa, un cocainomane che lavorava per una griffe importante e che oggi la sfanga come può, butta lì un puntello (un appuntamento) e un indirizzo; si scusa per il ritardo; promette di rifarsi vivo tra un paio di giorni, e “mi raccomando, non sparire. Ti aspetto per una birra, ché ti faccio vedere i miei murales”. Lo sbirro chiude la telefonata, distende il sorriso, gli occhi mobili, pieni di strada. Non si toglie mai la berretta di lana. A questo punto non è più nemmeno un modo per camuffare. I capelli lunghi, alle spalle. E’ vestito da graffitaro, Angelo detto “Cocaina” (dal titolo di un docu-film di cui è protagonista). Anzi, Angelo, è un graffitaro. “Disegno storie di droga, quelle che vedo tutti i giorni in questa città dove la coca è come l’aperitivo. La tirano tutti, nessuno ci fa nemmeno più caso. Disegno perché, forse, ne ho bisogno per scaricare, per svuotarmi. Prendo la bomboletta, e vado. Ma solo in posti autorizzati, sono sempre un poliziotto… “.

Giornate e nottate a caccia di bamba – di chi la tira, di chi la vende – e poi vengono fuori questi quadri e murales che, volendo, in una città evoluta – avanti, come dice lui – sarebbero un bello spot anti-droga. Gli ultimi che ha fatto: un ragazzino che gira lo specchietto dello scooter e ci butta sopra la pista da tirare; una donna incinta con il ventre pieno di ovuli di neve; un’altra bella e sinuosa con la siringa (vera) nel braccio. “Fa schifo. Ma è la realtà, e io e quelli che lavorano con me la realtà la conosciamo, mica puoi fare finta di vederne un’altra”. Angelo Langè, 40 anni, è un tipo alla Serpico, ma non ci fa per niente. C’è tutto. Parla il linguaggio del marciapiede, delle scuole, della discoteca; sorride e s’incazza, ma anche no, e però è sempre una specie di poliziotto funambolico e romanzesco, ironico, buono e antibuonista. Prima di chiudere le manette ai polsi dello spacciatore marocchino beccato con le palline in bocca gli mette in mano una mentina, “mangiala, ché hai un alito pazzesco”. Però alzare le mani, o fare lo splendido, mai. Il pusher è qui, seduto in un angolo della stanza, appena arrestato. Stanno chiamando la “batteria” del tribunale per l’avvocato d’ufficio.

Nella Milano strafatta l’ispettore (in borghese) Langè ci sta dentro col buio e quando filtra la luce è ancora lì. In corso Como o nei campi nebbiosi di Cornaredo. Nei casermoni della Barona, all’Isola, sui Navigli. Annusa, insegue, fa il cane da caccia e infine – “è il mio lavoro” – ingabbia. “Ingabbiamo come dei nastri – racconta assieme ai ragazzi della sua squadra, Simone, Paolo, Totò, Dario, Alessandro, look tra lo snowborder e il rappettaro – Per uno che ne becchi, però, ce ne sono altri cinque che vengono fuori e che lavorano. Il problema, che è anche la cosa più interessante, è capire il consumatore. Entrare nella sua testa, nei suoi movimenti. Che balle racconta a te e a se stesso. Perché continua a tirarla, sempre di più. Prima o poi capirò” – scuote la testa. La butta sul metafisico – “la coca è nettare per corpi impazienti” – ma poi si schernisce.

Ama il suo lavoro, lo sbirro; ama come lo fa. Quando ti parla di gente piena fino ai capelli, di palline incellofanate custodite in bocca o ingoiate all’ultimo, di spacciatori del Congo e del Gambia che ti guardano per la serie: cosa vuoi?, gira alla larga che devo lavorare, degli alibi assurdi dei clienti, di fughe tra le auto, ai giardinetti, di caffè offerti al bar nel cuore della notte a uno che hai appena arrestato; quando ti descrive come si impolvera Milano, come la tira lo sbarbato, la guardia giurata, l’ingegnere informatico del colosso telefonico finlandese, il chirurgo di grido, la modella e il suo autista, lo studente dello Iulm, la rampolla svizzera in pigiama all’angolo della strada, il pierre del locale figo, la panettiera che scende in cortile a comprarla col marito e la figlia di due mesi, questo agente della Sesta sezione (unità operativa criminalità diffusa) convince tanto quanto una ricerca scientifica. “Questa è la città dell’happy hour e della cocaina. Ormai è come se fossero due tradizioni – dice – Per me, davvero, è vivere dentro un film (in effetti il cinema lo corteggia, a marzo sarà a fianco di Raoul Bova in “Sbirri”, regia di Burchielli e Parissone, gli stessi che lo hanno “seguito” in presa diretta in “Cocaina”). Quando esco e vado a fare la spesa faccio il giro largo, passo davanti al posto di spaccio. Se vedo il tipo dentro la cabina che va in sbattimento, mi fermo e aspetto. Anche se sono fuori servizio. La droga non si ferma mai”.

Il poliziotto-graffitaro racconta di vite storte, della polvere bianca che i milanesi chiamano “bamba” o “barella” e che si sparano 120 mila volte al giorno. Il fine settimana le dosi consumate diventano il doppio, 240 mila. Con 30 euro a Milano puoi compare mezzo grammo di coca, buon prezzo e buona qualità. “E’ la città dove ne scorre e dove se ne consuma di più – spiega Luigi Rinella, capo della Narcotici – E’ qui che si accordano i cartelli del narcotraffico. Qui si decide il mercato italiano. Milano sta all’Italia come l’Olanda sta all’Europa”. Molto dipende dall’appetito dei clienti. “Usano sempre più sostanze insieme e acquistano più droghe alla volta” – ragiona Francesco Messina, capo della squadra mobile.

A entrarci con le felpe larghe e colorate dello sbirro che gira con la vernice spray, col suo dialetto un po’ bergamasco (è nato a Bergamo, quartiere Celadina, “al piano terra spacciavano, forse c’era qualcosa di già scritto”, sorride) e un po’ milanese, il naso di Milano appare diviso per strati. “In basso ci sono gli scancrenici, gli africani di viale Monza che si fanno di tutto e per farsi la vendono. Salendo, ci sono i giovani, dai 18 ai 25. Studenti che hanno il loro giro, a scuola, all’università, alle feste in discoteca. La coca per loro è un’esperienza da condividere. Difficile vedere uno che la compra o che se la fa da solo. Poi, ed è la fetta più larga, c’è il livello del cliente di tutti i giorni a tutte le ore. Adulti, dai 30 in su. Con la bamba hanno un rapporto soprattutto individuale. Già dal momento dell’acquisto”. Dalle pieghe dei verbali dell’antispaccio emergono spaccati di miserie, soprattutto morali. Di consumatori abituali che si organizzano con il servizio a domicilio, il pusher va in bicicletta. Una “coccola” che si paga, la coca direttamente a casa. E che a Milano può marcare delle differenze “sociali”. Ma non è più o non tanto il cocainomane “vip” la cifra del mercato.

Agli investigatori questi clienti sembrano interessare sempre meno. Non si scompigliano per la show girl dai fidanzati famosi e sportivi, e sempre più magra, che ha inforcato l’ennesima notte in polvere; né per il calciatore sul viale del tramonto, assiduo di Miami, né per il vulcanico stilista con lo stesso vizio dei figli. Dice Langè: “Di tutti, ricchi e belli oppure “scancrenici”, dico che sono soli, e che anche se li stai arrestando la cosa migliore è parlargli. Capire perché l’hanno presa, spiegargli che la droga è da sfigati. E loro si aprono, perché in fondo gli aiuti a dare un senso a un fallimento, a prescindere che duri una notte o una vita”.

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