Intrighi e corruzione per l’impiegato che acquistò il titolo di duca

Edizione NAZIONALE 

06/04/2008

Intrighi e corruzione per l’impiegato che acquistò il titolo di duca

a25442108a99a8d5b2f04f4319854ff3.jpgAntonella Cilento Scorazzando per palazzi, alla fin fine, ci si fa l’idea che a Napoli esistono i palazzi delle congiure, i palazzi degli omicidi – e quindi, per ovvia conseguenza, dei fantasmi – e i palazzi del denaro. Palazzi come semi di carte, insomma: palazzi cuori(amori felici, infelici, dannati), palazzi di quadri (quante collezioni e segrete ricchezze), di picche (le punte armate della soldataglia, ma anche le irruzioni dei rivoltosi o le baionette dei soldati del Re contro i patrioti) e palazzi di fiori (giardini in abbondanza che oggi non ci sono più). E il gioco vale con le carte francesi come con quelle napoletane (ori, bastoni – o bastonate – ecc…), tant’è che Palazzo Colonna di Stigliano, ovvero Palazzo Zevallos, ovvero l’attuale sede di Banca Intesa ex Banca Commerciale, è stato sin dall’inizio un palazzo di denaro e quasi subito anche un palazzo di quadri. Insomma ori e settebello se si considera che il primo proprietario aveva fatto i soldi in maniera non limpida – e ne aveva fatti tantissimi – e che il destino del palazzo è stato comunque quello di racchiudere cedole, assegni e ospitare transazioni. Palazzo Zevallos su via Toledo mostra ancora i segni dell’eccessiva grandezza e anche dello sfarzo decorativo che Giovanni Zevallos volle per fare invidia al viceré D’Arcos: infatti, considerando la disposizione urbanistica, è evidente che il palazzo – all’epoca considerato quasi imperiale – è abbastanza vicino a Palazzo Reale da tentare il paragone diretto. Lo Zevallos, portoghese in una città dove arrivavano a cariche pubbliche indifferentemente olandesi, genovesi, spagnoli e napoletani a patto che diventassero arrendatori, cioè investissero nelle finanze del regno i propri capitali, era un misero ufficiale di scrivania, un impiegaticchio insomma, che però a furia di brigare con i partiti intorno alla Corte aveva accumulato seicentomila ducati. Una cifra straordinaria al punto che nel 1639 Zevallos acquistava un’intera città – un nobile di lignaggio ne possedeva di solito numerose, insieme a feudi e baronie varie: Ostuni veniva venduta per sessanta ducati «a fuoco», ovvero a focolare, a famiglia, inaugurando un regime di oppressione e tirannia memorabile per oltre due secoli. Giovanni, «esempio di egoismo e di rapina, prototipo della corruttela del secolo, uno dei doni del malgoverno spagnolo», era anche diventato duca a seguito di quest’acquisto, ripulendo le sue modeste origini, ma ci aveva pensato la rivoluzione di Masaniello a rimettere in pari, sia pur momentaneamente, l’ingiustizia visto che il palazzo venne assaltato e incendiato e poco ci mancò che anche Zevallos ci lasciasse le penne: «il duca stesso vi sarebbe perito d’archibugio o di capestro, se non si fosse rifugiato in tempo nel Castel Nuovo a Napoli. Dopo questa rivolta i suoi affari vanno a rotoli; gli vengono sottratti valori che ascendevano a quell’epoca a ben centomila scudi». Indebitato, Giovanni vende ad arrendatori più fortunati di lui: l’olandese Vandeneyden, mercante di grano e banchiere, socio del mercante d’arte Gaspare Roomer – che aveva a sua volta acquistato il palazzo di Diomede Carafa duca di Maddaloni (di cui abbiamo già narrato), altro personaggio protervo e odiatissimo dai napoletani – compra e rimette in sesto il palazzo di via Toledo, affidando a Cosimo Fanzago il restauro. Il disegno di Fanzago oggi è visibile quasi solo nel bellissimo portone, ma, stando ai disegni d’epoca, tutta la costruzione era stata ripensata e decorata con fasto barocco: e qui il palazzo divenne, da semplice palazzo di denari, palazzo di quadri. Vandeneyden, con Roomer, possedeva una magnifica collezione d’arte di cui oggi c’è parziale traccia a Capodimonte, poiché dispersioni e vendite – e la scomparsa delle tracce di vendita – ce ne danno un’idea immensa ma ridotta rispetto alla realtà. Il figlio di Vandenyden, Ferdinando, sposò per altro un’erede della famiglia romana e pontificale dei Piccolomini – e il palazzo prese questo nome per un po’ – , Olimpia, e ne ebbe tre figlie che si legarono a loro volta ai Carafa di Belvedere e ai Colonna di Sonnino. Delle tre, il palazzo toccò in eredità a Giovanna, moglie di Giuliano Colonna e quest’ultimo affidò a Luca Giordano la catalogazione e il riordino delle opere d’arte presenti nell’edificio. Ma al palazzo toccava di nuovo di essere bruciato (i sanfedisti nel 1799, di nuovo lazzari ma con intenzioni più conservatrici rispetto ai tempi di Masaniello) e poi smembrato dall’erede dei Colonna, Cecilia Ruffo di Stigliano che, andando ad abitare solo l’ultimo piano del palazzo – aggiunto dopo il restauro di Fanzago – cedeva i quartini al banchiere francese Forquet e ai suoi figli, al cavaliere de Piccolellis e ad altri. I nuovi proprietari affidarono il restauro all’architetto Guglielmo Turi, che dell’esterno fanzaghiano conservò solo il portale, e l’interno lo affidò agli affreschi, stucchi e bassorilievi di Giuseppe Cammarano, Gennaro Maldarelli e Gennaro Aveta (e Cammarano realizzando il grande affresco sopra lo scalone cancellò il precedente di Luca Giordano…). Nel 1898 la Banca Commerciale acquistò l’edificio aprendo la sua prima sede a Napoli e il grande cortile, ultima sopravvivenza dell’aia secentesca, diventò, coperto da grandi vetrate liberty, l’attuale salone della banca. Oggi si entra in Palazzo Zevallos per vedere l’ultimissimo Caravaggio: «Il martirio di Sant’Orsola», di proprietà dei Doria d’Angri e poi acquistato da Banca Intesa (un tempo nella collezione di Roomer e Vandeneyden) è tornato nel palazzo dei quattrini. Il magnifico salone, le bellissime scale, le stanze dove Caravaggio e altri pittori sono ospitati fra stucchi raffinatissimi e colorati aspettano i visitatori. Le GUARDIE GIURATE, ogni volta che ci porto qualcuno in visita, ripetono la frase: «Vi volete affacciare a guardare?». E noi ci affacciamo dalle balconate dei quartini a guardare gli impiegati in camicia e cravatta, i clienti con il numero, le scrivanie con i computer che alloggiano senza colpo ferire sotto le vetrate primo Novecento e fra le scenografie ottocentesche su ricalco barocco che avvolgono l’antica corte. Bisogna lasciare le borse e i cappotti nel deposito per vedere la pallida Orsola e respirare la zuccherosa atmosfera Belle Epoque delle sale stuccate. Il museo dentro la banca è piccolo ma perfetto, un esempio di funzionalità. Pure, c’è qualcosa di strano nel vedere tanta bellezza custodita dal denaro: ne esco inquieta, ogni volta. Chi lo sa se gli impiegati della Banca hanno il tempo, ogni tanto, di venire a contemplarla.

Intrighi e corruzione per l’impiegato che acquistò il titolo di ducaultima modifica: 2008-04-07T11:15:00+02:00da sagittario290