Quel colpo che svuotò il caveau e il giallo dei miliardi scomparsi

Cronaca

29 giugno 2014

Quel colpo che svuotò il caveau e il giallo dei miliardi scomparsi

Trent’anni fa il clamoroso furto alla Banca Popolare di Asolo e Montebelluna, nelle cassette. Il tesoro delle grandi famiglie di Montebelluna. Quattro romani arrestati, ma la refurtiva è sparita

di Daniele Ferrazza

Il primo ad accorgersene, domenica sera, fu Alfonso Positello, che per la banca faceva il custode. Pochi minuti dopo arrivò sul posto il maresciallo dei carabinieri, Duilio Freddi. Quindi il direttore generale della Banca, Lazzaro Pozzi, e il presidente Roberto Tomatis. Indescrivibile il pallore nei loro volti.

Sono trascorsi esattamente trent’anni dal clamoroso colpo al caveau della Banca Popolare di Asolo e Montebelluna, scoperto la sera del primo luglio 1984. Una banda di abili «cassettari» romani, introducendosi sabato sera nei locali dell’istituto di credito che oggi si chiama Veneto Banca, riuscì a svuotare quasi completamente 112 cassette di sicurezza. Il bottino, mai calcolato con esattezza per ragioni di assicurazione, balzò dall’iniziale miliardo di vecchie lire ad almeno venti stimate dopo appena una settimana. Ma tra i pensionati della banca e gli inquirenti che hanno seguito il caso, si è sempre parlato di una cifra oscillante tra i cento e i duecento miliardi di lire. Praticamente il furto del secolo, il più grande bottino mai realizzato da una banda nel Veneto. A seguito di un’indagine tradizionale, senza Ris o esame del dna, i carabinieri catturarono un paio di mesi dopo quattro persone.

«Facevo il mio giro al mattino e la sera, il giorno dopo partivo per le ferie – racconta Alfonso Positello, che oggi ha 69 anni – al mattino non avevo notato assolutamente nulla, eppure erano certamente dentro. La sera, invece, mi accorsi che c’era qualcosa di diverso nella stanza, che io potevo vedere solo dietro un’inferriata. Ma non disponevo delle chiavi, chiamai la banca e i carabinieri».

La «tribuna» fu il primo giornale a darne notizia, sulla prima pagina di lunedì 2 luglio, che apriva con l’attacco del Psdi a Tina Anselmi presidente della commissione di inchiesta sulla P2 e di spalla riportava l’arrivo di Maradona a Napoli. Merito della serale passeggiata domenicale del nostro Enzo Favero, storico corrispondente del giornale. «Vidi un sacco di carabinieri che si aggiravano attorno alla banca – racconta oggi il cronista -: mi bastò chiederne conto a uno di quelli che conoscevo di più e di correre a casa a telefonare al giornale, dando le prime notizie. Poi tornai in piazza, raccogliendo nuovi particolari».

A Montebelluna, quel giorno e i successivi, lo smarrimento era pari almeno all’angoscia per aver perso tutto: dollari, lingotti d’oro, quadri da collezione, gioielli e preziosi. Mezza Montebelluna custodiva gran parte della propria vita nelle cassette di sicurezza della Banca, fino ad allora considerato il posto più sicuro del mondo. Molti imprenditori custodivano le quantità più elevate del proprio «nero». Tutti ricordano le angoscianti file allo sportello a chiedere conto dei propri «tesori»: Montebelluna aveva appena registrato il record di città con il più alto reddito pro capite d’Europa. Le famiglie Vaccari, Caberlotto, Danieli da sole erano padroni del mercato delle scarpe da sci e da calcio mondiale.

La banda, degna della fama cinematografica di Ocean’s Eleven, aveva minuziosamente preparato il colpo. Disponeva certamente di un basista interno e della complicità, probabilmente, di una guardia giurata: nessuno dei due fu mai identificato. Entrarono in azione al sabato sera, approfittando di un cantiere dell’impresa Pivato di Onè di Fonte che avvolgeva la parete est della banca. Scaricarono da un furgone arnesi da scasso, fiamma ossidrica, carotatrice, bombole di gas, un grosso bidone. Disinserirono il sistema d’allarme con un banalissimo accendigas a scintilla preoccupandosi di ripristinare la spia di sicurezza con un finto alimentatore, scesero al piano di sotto e iniziarono il lavoro. Riempirono un bidone d’acqua per raffreddare la punta della carotatrice, costruendo una diga con diversi panetti di stucco per impedire all’acqua di allagare il pavimento. Dopo aver realizzato nove buchi nella parete spessa sessanta centimetri – un lavoro durato quasi venti ore – il muro cedette aprendo loro il passaggio nei locali del caveau. Ad ogni ora, a intervalli regolari, scendeva la guardia giurata dell’istituto di vigilanza, che tuttavia non si accorse di nulla. La banda del buco, con dei punteruoli da formaggio, fece saltare 112 cassette di sicurezza, svuotandole completamente. Presero contanti, oro, preziosi lasciando le cose meno interessanti. Poi risalirono e uscirono dall’ingresso laterale, caricando il bottino.

Ad agire furono almeno in quattro: oltre al regista Berivi c’erano il capo banda Spadoni, l’allarmista e il saldatore, dal volto abbrustolito dalla fiamma ossidrica. Si dileguarono in una sera d’estate, con un furgone bianco carico di miliardi, facendo perdere le loro tracce.

A curare le prime indagini fu un brigadiere dei carabinieri di 25 anni del Nucleo operativo di Castelfranco, Antonio Ria: «Il comandante, all’epoca capitano Lauro Santaniello, mi incaricò di seguire l’indagine. Appena vidi la carotatrice mi ricordai di un amico, l’ingegner Patrizio Puntel di Castello di Godego, esperto di trivellazioni. Attraverso di lui risalii alla fabbrica della punta della carotatrice, la multinazionale Atlas Copco: mi spiegarono che ogni punta portava un numero di matricola ma, soprattutto, che un loro operaio aveva il vezzo di riportarlo anche nella cavità interna. I banditi avevano abraso la matricola esterna ma, ignorando questo dettaglio, non si accorsero che il numero era segnato anche all’interno. Risalìi a un rivenditore di Roma». Poche settimane più tardi furono arrestati quattro cassettari romani: Giancarlo Di Massimo, Luciano Spadoni, Franco Berivi e Bruno Micheletti. Uno di loro fu indicato come responsabile anche del colpo da 35 miliardi di lire compiuto nel deposito della «Brink’ s Securmarket» di Roma. «Da Milano andai direttamente a Roma, per quattro giorni nemmeno mia moglie seppe dov’ero» ricostruisce Ria, che oggi ha 55 anni e vive a Castelfranco. «Era un noto esponente della banca del buco, che aveva già compiuto altri colpi del genere. Riuscì a farmi autorizzare l’arresto da un magistrato romano, saltarono fuori gli altri nomi». «Uno dei banditi – racconta Alessandro Senatore, storico maresciallo dell’Arma di Castelfranco – portò un alibi che appariva di ferro: quel giorno sarebbe stato in gita alle Grotte di Frasassi e produsse due donne a testimoni. Riuscìi a demolire l’alibi arrestando le due donne per falsa testimonianza le due donne. Crollate loro, Spadoni non ebbe più spazio per mentire».

. (Franco Berivi è morto quattro anni fa, Luciano Spadoni vive a Roma ed è stato arrestato più volte, la guardia giurata si licenziò poche settimane dopo il colpo. Solo una piccola parte della refurtiva fu recuperata. I soldi contanti, i lingotti, la valuta estera non furono mai ritrovati).

Quel colpo che svuotò il caveau e il giallo dei miliardi scomparsiultima modifica: 2014-06-30T11:45:18+02:00da sagittario290