L’intervista che Maniero ha querelato chiedendo un milione di euro.

Cronaca

07 ottobre 2011

L’intervista che Maniero ha querelato chiedendo un milione di euro. La verità costa?

da Yourpluscommunication

lintervista-che-maniero-ha-querelato-chiedend-L-5msSqj.jpgCome abbiamo già scritto nel precedente articolo, oggi Felice Maniero ha dato mandato al suo avvocato di querelare il questore di Treviso Carmine Damiano per l’intervista che ha rilasciato al giornalista Alberto Beggiolini del Gazzettino.

Le motivazioni dell’ex boss della Mala del Brenta sono l’attribuzione alla banda da lui capeggiata di una violenza sessuale avvenuta durante un rapina in villa a Padova, l’esistenza di un «tesoretto» nelle mani dell’ex boss mai venuto fuori, nonostante il pentimento e la conversione religiosa, e l’attribuzione da parte di Damiano della paternità del suo arresto nel ’94.

Tutte motivazioni che però il questore rigetta con prove difficilmente smentibili, quali le firme sui rapporti d’indagine.

Il tutto nasce dall’intervista fatta da Nicoletta Masetto, per il Messaggero del Santo, al neo imprenditore Maniero, che insieme al dossier sul “rapimento del mento del Santo”, abbiamo pubblicato la settimana scorsa.

Ma pochi hanno letto le parole di Damiano che hanno scosso “faccia d’angelo”. Di seguito la riportiamo fedelmente:

TREVISO – «Uno. Non è vero che Felice Maniero abbia rubato la reliquia di Sant’Antonio per trattare con lo Stato la liberazione del cugino Giuliano. A lui di quel cugino non fregava niente».

«Maniero voleva semplicemente “negoziare” un trattamento particolare per sé, visto che al regime da “sorvegliato speciale”, con orari, frequentazioni, spostamenti limitati, non riusciva ad adeguarsi. Figurarsi».

«Due. Non è vero che Felice Maniero si sia pentito. Lui è sempre stato un freddo calcolatore. Aveva da tempo programmato di collaborare con la giustizia in caso di definitivo arresto. E così è stato». «Tre. Non è vero che adesso viva del suo lavoro di imprenditore. O meglio, è vero che oggi fa l’imprenditore, ma lo fa utilizzando i denari che mise da parte negli anni d’attività della sua banda. Un vero tesoretto, che non è mai saltato fuori».

Sono passati tanti anni. Carmine Damiano oggi è il Questore di Treviso, eppure nel suo studio ogni tanto sfoglia ancora gli stessi fascicoli, le stesse foto, “ripassa” i verbali, gli interrogatori. Perchè non c’è grande cacciatore senza una grande preda. E per Carmine Damiano, professione poliziotto, capo della Squadra Mobile di Padova nel periodo della mala del Brenta, la grande preda aveva un nome solo: Felice Maniero.

«L’ultimo vero boss – continua Damiano – senza romanticismi, senza simpatia, ma con ferocia e violenza».
Eppure su di lui hanno fatto i film…«Inevitabile, hanno fatto film anche su Vallanzasca, sulla Magliana o su Hitler».

E intanto il Questore sfoglia un dossier di rilievi fotografici, fermandosi su un cadavere di un portavalori, ridotto a brandelli, e su quello di una ragazza, la studentessa di Conegliano Cristina Pavesi, colpevole di viaggiare su un treno che incrociò a Vigonza il convoglio fatto saltare in aria da Maniero con all’interno un tesoro in titoli.

Come si spiega la nascita in un territorio fino ad allora “tranquillo” come il Veneto orientale di una simile banda sanguinaria?

«Fu un fenomeno nato e vissuto solo grazie al “talento” di Maniero, unico capo, feroce ma anche pensante. Dai ladri di polli ad una gang organizzata: tutto merito del boss, cresciuto ed ispirato dai mafiosi finiti qui in soggiorno obbligato. Certo è che queste terre non meritavano un fango del genere».

Torniamo a quei suoi tre punti iniziali, che puntualizzano recenti dichiarazioni fatte dallo stesso Maniero, nascosto in una località imprecisata.
Dunque, proprio vent’anni fa Maniero ordinò ai suoi di trafugare la reliquia del Santo (vedi scheda in basso), per trattarne la restituzione. Fu un salto di qualità, per lo “stile” della banda?

«Sì, un salto in avanti, che per certi versi purtroppo poi fece scuola. Ma, ripeto, la reliquia doveva servire unicamente per ottenere un trattamento più “mordibo” per sé, per addolcire il regime impostogli dal Tribunale di Venezia. Degli altri parenti, amici, componenti della banda…».

Lei dice anche che non crede al suo pentimento.

«Guardi, quando lo arrestai, nel ’94, Maniero non era ricercato solo da noi: c’erano anche alcuni dei suoi “fedelissimi” che avrebbero voluto prenderlo, per fargli pagare tutto quello che in tanti anni lui non aveva mai condiviso con la banda. Lui lo sapeva, non sarebbe potuto comunque durare a lungo. Ed aveva già raggiunto una conclusione: in caso di cattura, molto meglio “collaborare”, sacrificare definitivamente i suoi ormai ex amici, e salvare il suo tesoro. Quando lo prendemmo era tranquillo: cominciò a parlare già in auto, nel trasferimento da Torino a Padova».

E veniamo così al terzo punto: i soldi, il famoso “oro di Maniero” di cui s’è sempre favoleggiato.

«Maniero ha detto recentemente solo una grande verità: della sua banda a fare davvero i soldi è stato solo e sempre lui. Tutti gli altri sono finiti miseramente in galera o anche liberi, ma di fatto indigenti. Sui soldi di Maniero è sempre calato il mistero, non sono mai saltati fuori, anche perchè quasi certamente sono stati investiti all’estero. All’epoca solo con la droga racimolava 50 milioni di lire al giorno: gestiva dai 30 ai 40 chili di eroina al mese».

Oggi Maniero sembra quasi un ex cattivo maestro, e si rivolge ai giovani mettendoli in guardia contro i falsi miti d’onore creati attorno alla “mala”.L’ex boss dice anche che oggi frequenta un convento di francescani.

«Se fossi in loro, starei attento. Guardi, se proprio Maniero si fosse convertito e volesse oggi espiare e “fare del bene” potrebbe usare un po’ di quel suo tesoretto che non è mai venuto fuori».

Lei riuscì ad arrestare definitivamente Maniero nel ’94.

«Quando lo catturammo, il 24 settembre del 1994, a Torino, in via XX settembre, fu davvero un grande giorno. Maniero era fermo insieme a Marta Bisello davanti alle vetrine di un negozio di scarpe di lusso: nell’appartamento che avevano preso in affitto ne trovammo poi almeno 15 paia, davvero costosissime. Erano passati tre mesi dalla spettacolare evasione dal carcere di Padova, avvenuta malgrado io stesso qualche tempo prima avessi già messo in guardia la direzione del Due Palazzi su quell’eventualità».

Non fu ascoltato?

«No. Era un carcere di massima sicurezza, Maniero era in regime duro, di 41bis… L’evasione sembrava un’ipotesi assurda. Nonostante un tentativo di fuga fosse già stato accertato precedentemente a Vicenza».

Come arrivaste a localizzarlo a Torino?

«Da circa un anno avevamo impostato un’indagine complessa sui movimenti patrimoniali, di investimenti e riciclaggio di Maniero. Proprio seguendo quel filone, eravamo riusciti, a ferragosto del ’93, a bloccarlo a Capri, a bordo del suo yatch. E fu grazie ai movimenti di carte di credito, telefoni ed altro ancora che riuscimmo ad arrivare a Torino, e a circoscrivere la zona dove si trovava in un raggio di duecento metri. Poi, mentre controllavamo via XX settembre, ce lo trovammo praticamente davanti. Lui si arrese subito, non fu necessaria nessuna violenza».

Oggi Maniero, 17 omicidi e un numero imprecisato di rapine, sequestri, furti e via dicendo, è un uomo libero. Che effetto le fa?

Damiano resta impassibile, ma se ne sta anche zitto per qualche secondo, prima di rispondere. «Sono leggi dello Stato. È la sua “ragione”. Le stesse leggi che sono riuscite a vincere il terrorismo e tante associazioni per delinquere. Certo, si sarebbe potuto essere più duri con lui, prima di concedergli misure alternative alla detenzione. Ma è andata così. Oggi l’incubo è finito».

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