Io dentro il burqa nelle strade di Milano

Cronaca

(28 gennaio 2010)

Una giornalista di Repubblica racconta la sua giornata nelle strade della città
tra curiosità, divieti fino all’allontanamento degli uffici comunali

Io dentro il burqa nelle strade di Milano

di ZITA DAZZI

080222890-9f54e8c0-63a4-4a3a-b4df-11c46f3cf411.jpgMILANO – Girare per Milano dentro a un burqa è come camminare sott’acqua. Per un intero pomeriggio ho passeggiato per il centro della città con addosso il niqab prestato dalla moglie di un imam della moschea di via Quaranta. Nei giorni in cui la Francia si prepara a vietare il burqa, si scopre che anche da noi, vestiti in quel modo non si fa molta strada. Nemmeno in una grande città come Milano. Non si può prendere un libro in prestito in biblioteca, non si può entrare all’anagrafe comunale. E se ci si avvicina al palazzo di giustizia, scattano tutti i dispositivi di sicurezza. La passeggiata inizia alle 14.30. La prima tappa è la moschea alla periferia sud dove l’imam Ali Sharif mi procura un abito nero lungo fino ai piedi, col copricapo che usano le donne in tanti paesi islamici. Tessuto sintetico, tre strati di nylon sovrapposti, taglia abbondante e un ricamo floreale marrone sul petto. La cosa più difficile è capire come indossare il velo, con un cordino da legare dietro alla nuca e una stretta fessura che lascia appena una feritoia per gli occhi.

Il tassista a cui chiedo di accompagnarmi in centro non fa una piega: “C’è qualche collega che magari non l’avrebbe caricata. Ma io mi fido, ogni tanto mi è capitato di portare donne del suo paese”, mi spiega come se tutte le donne velate venissero dallo stesso posto. Scendo in via Larga, dove si trova la sede centrale dell’anagrafe. Allo sportello informazioni chiedo dove si rinnova la carta di identità. “Ma lei ce l’ha la residenza?”, mi rispondono. Non ho tempo di replicare, perché un commesso mi avvicina con fare deciso: “Lei qui non ci può stare, così vestita”. Chiedo spiegazioni. Mi risponde che “queste sono le disposizioni: negli uffici del Comune si entra a volto scoperto e per fare i documenti bisogna farsi identificare e fotografare senza velo”. Incasso e mi dirigo verso piazza del Duomo. Cinque minuti a piedi e sono davanti alla cattedrale. I due vigili che assieme a un militare presidiano l’ingresso di via Santa Radegonda mi squadrano un po’ sorpresi e mi chiedono di aprire la borsa. Poi le porte si aprono. Percorro tutta la navata laterale, incrociando centinaia di persone. Turisti, fedeli. Qualcuno scatta una foto, una signora in pelliccia si ferma davanti a me scuotendo la testa. Ma proseguo la visita indisturbata. Esco e faccio un giro sul sagrato. Anche qui rimedio qualche foto dei passanti e qualche risata dei ragazzi che siedono sui gradini. Niente di più.

Affronto la Galleria, faccio un giro sotto i portici verso corso Vittorio Emanuele. In una gioielleria guardo nelle vetrine orologi e orecchini a pendente. Ma le commesse sembrano non accorgersi della mia presenza, non mi chiedono nemmeno se ho bisogno di qualcosa. Esco e faccio ancora qualche passo. La gente mi guarda incuriosita, a qualcuno sfugge un sorriso ironico, o di compatimento. Una mamma col passeggino si scosta al mio passaggio. Passo davanti alla biblioteca Sormani in corso di Porta Vittoria. All’ingresso c’è un addetto molto gentile che si sforza di non sembrare scortese o stupito. Quando gli chiedo come si fa a prendere in prestito un volume, chiama il superiore al telefono. “Può entrare a studiare come e quando vuole. Ma se ha bisogno di consultare uno dei nostri testi o anche solo di andare su Internet dai nostri computer, deve mostrare un documento di identità e farsi identificare”. Poi per essere più chiaro: “Voglio dire che deve mostrare il viso, togliere il velo. Se vuole chiamo una addetta donna, per sua riservatezza”. Sono ormai le 16 e spiego che tornerò un’altra volta, senz’altro.

Proseguo per la mia strada e arrivo davanti alla grande mole del Tribunale. Mi chiedo quali saranno le disposizioni di sicurezza. Domando a una guardia giurata. Mi indica l’ingresso laterale di via Freguglia. Provare, anche se vedo gli sguardi preoccupati delle persone che incrocio sulle scale. Appena dentro, le guardie all’ingresso si allarmano. Con la massima gentilezza, mi spiegano tutto quel che devo fare. La borsa nella macchina dei raggi X, le tasche da svuotare, il passaggio sotto un altro metal detector. La fibbia della cintura fa suonare l’allarme e quindi vengo sottoposta a un’altra ispezione con lo scanner manuale. “Tutto a posto, signora. Sì, la cancelleria è aperta, ma deve attendere ancora un momento”, mi dicono. Li sento comunicare al telefono con qualcuno a cui chiedono: “C’è qui una signora col burqa. Ha fuori solo gli occhi. Che devo fare?”. La donna integralmente velata, anche se parla bene l’italiano e se ha qualche capello biondo che sfugge da sotto il niqab, inquieta. Mi spiegano: “Ci scusi, dobbiamo farla aspettare. Deve parlare con chi ha emesso il “provvedimento””. Dopo circa un quarto d’ora arriva un comandante dei carabinieri, che con tono severo mi apostrofa: “Lei, esattamente, che cosa voleva fare?”. Spiego che volevo avere copia di alcuni atti processuali che mi riguardano. Il comandante è lapidario: “Bene. Se vuole quegli atti deve venire un’altra volta e farsi identificare. Comunque deve venire senza velo. Perché così è come se lei mi chiedesse di accedere agli uffici con un casco integrale in testa”. Ringrazio e saluto.

Sulla strada del rientro, entro in una boutique in piazza San Babila a vedere i saldi. Le commesse sembrano non vedermi e giro indisturbata raccogliendo solo qualche sguardo divertito. Ma non ho tempo per gli acquisti. Scendo in metropolitana. Linea rossa fino a Cadorna. Nella ressa dell’ora di punta, nessuno sembra far caso al mio abbigliamento. Anzi, trovo posto a sedere. Propongo di cedere il sedile a una signora anziana, ma lei ringrazia e si allontana. Quando esco sono davanti alla stazione Nord: un giro lungo i binari. Chiedo dove si acquistano i biglietti del Malpensa Express. Qualcuno ha troppa fretta per fermarsi a rispondere, qualcun altro gentilmente mi indica l’ufficio. Entro ed esco dai negozi, tutti mi guardano e mi rispondono con gentilezza. Così anche sull’autobus 94 con cui raggiungo Sant’Ambrogio. L’ultima tappa è al supermercato di via Olona. Entro, giro fra i banconi. Chiedo ad altri clienti dove si trova il latte, dove sono le carote. Non incontro diffidenza. Quasi nemmeno sorpresa, anche se mi trovo in un quartiere storico, uno dei più eleganti di Milano. Quando vado per pagare, la cassiera mi sorride addirittura. Come se le facesse piacere, una volta tanto, vedere qualcosa di diverso.

Io dentro il burqa nelle strade di Milanoultima modifica: 2010-01-29T11:00:00+01:00da sagittario290