27-08-2009 sezione: HOME_INITALIA
Circeo, quei due giorni di orrore
che hanno sconvolto l’Italia
di Massimo Martinelli
ROMA (27 agosto) – C’è ancora il profumo dell’estate tra gli alberi di via Pola, a Roma, la notte del 30 settembre del ‘75. Sui terrazzi di questi palazzi bene, a due passi dal centro, al confine esatto tra i Parioli e il quartiere Trieste c’è una signora che ha appena finito di sistemare la cucina, dopo la cena con il figlio, un ex carabiniere.
E’ lui che ha l’orecchio più fino: si accorge che oltre al fruscio delle foglie c’è qualcos’altro. Voci, rumore di automobile. Due ragazzi per bene, li descriverà poi. Uno dei due si affaccia in una stradina laterale, scorge un posto libero, fa un cenno all’amico. Un attimo dopo, una Fiat 127 bianca è allineata insieme alle altre. Sono quasi le undici. Passano le ore. L’ex carabiniere è abituato a dormire con un occhio solo. Quando i rumori cambiano, se ne accorge. Adesso piccoli colpi sordi, lamenti, quasi una nenia. Si alza e torna alla finestra.
Forse è un cane; forse proviene da quella Fiat 127. Forse quei giovani lo hanno lasciato in macchina. Ma adesso c’è qualcun altro in strada: è un condomino incuriosito da quella litania. L’ex carabiniere lo chiama, gli indica la 127. E’ l’una e trenta di mercoledì primo ottobre 1975 e sta cominciando una vicenda giudiziaria terribile, che costringerà un intero ceto sociale, quello dell’alta borghesia capitolina, a riflettere sul proprio ambiente, sulla propria cultura, sull’educazione e sui valori che, fino a quel momento, aveva cercato di inculcare nelle proprie famiglie. L’ex carabiniere ha già fatto la sua telefonata e via Pola é piena di militari dell’Arma.
Donatella Colasanti riesce a sussurrare: «Finalmente siete arrivati, è la fine di un incubo». Sembra uscita dall’inferno; si volta verso il cofano: «Guardate, qua dentro c’è la mia amica». Ci vuole poco per verificare il nome dell’intestatario della Fiat 127. Si chiama Raffaele Guido, e abita a pochi passi da lì, in via Capodistria, in una villetta a quattro piani appena ridipinta, cancelli in ferro battuto lucidi di vernice, i fiori e le piante ben curati. Suo figlio, invece, si chiama Gianni, ed è già noto agli archivi della Polizia.
A tempo di record, l’archivio dei Carabinieri consegna la lista dei possibili indiziati. Sei nomi, tutti collegati da precedenti penali specifici: violenze sessuali, risse, rapine. Tra loro, ci sono i responsabili del massacro del Circeo: oltre a Guido anche Angelo Izzo e Andrea Ghira; i protagonisti di 36 ore di violenze, torture e percosse in una villa al Circeo della famiglia Ghira, in una delle località italiane che al tempo erano considerate tra le più esclusive.
Il pm di turno si chiama Salvatore Vecchione, che diventerà molti anni dopo il Pg di Roma; è lui a chiedere la perquisizione immediata delle abitazioni del gruppetto di neofascisti, violando i salotti dell’altissima borghesia romana. Ma Gianni Guido, ”faccia d’angelo” come lo chiamavano gli amici, a casa non è tornato. Il giovanotto spavaldo, che teneva la pistola nel bagagliaio ma aveva paura del padre, a tal punto da parcheggiare la macchina lontano da casa per evitare che lui gliela togliesse per castigo, sente le sirene e si allontana a piedi.
Ma si fa acchiappare da un metronotte allarmato dal trambusto, che nota la sua faccia sconvolta mentre cammina per via Pola. Suo padre Raffaele, altissimo funzionario della Bnl, dirà poi: «Hanno detto che era fascista: non è vero. Poi, nella speranza che il figlio non c’entri: «Se è stato lui, ammazzatelo». «E’ lui», confermerà Donatella Colasanti guardando le foto del ragazzo. E racconterà pure che – forse – è stata proprio una delle frasi più terribili pronunciate da Guido al Circeo a salvarle la vita: «Madonna, ma questa non muore mai», diceva il giovanotto mentre Rosaria Lopez veniva colpita all’impazzata nella villa al Circeo. Ed è in quel momento che Donatella capisce che al momento giusto dovrà fingersi morta, perché solo in questo modo i suoi aguzzini smetteranno di torturarla. Anni dopo, quella villa diventerà persino meta di pellegrinaggi turistici.
E spunterà anche una strada intitolata alle due ragazze. Il resto è storia recente. Al processo di appello Gianni Guido se la cava meglio degli altri: trent’anni invece dell’ergastolo; i giudici riconoscono che ha commesso violenze e torture, ma solo per seguire i due camerati che erano con lui. Erano Izzo e Ghira a prendere l’iniziativa. E Guido seguiva a ruota. E ancora, era stato il primo a dare segni di pentimento. E a risarcire – si fa per dire – le vittime. Cento milioni alla famiglia Lopez, che accettò. Altrettanti alla Colasanti che disse “no, grazie”. E poi il carcere. Non quello duro, però. Tanto che in occasione di una delle sue evasioni, ai magistrati venne il sospetto che la sua famiglia avesse corrotto le guardie.
Anche se al processo che ne seguì, l’ipotesi si rivelò inesatta. Guido comincia una vita da latitante di lusso, grazie ai denari che arrivavano da Roma. La prima volta lo prendono nel 1985 in Argentina, dove viveva in un residence da ricconi. Per i vicini di casa era un commerciante di automobili. Aveva il passaporto falso e le autorità argentine vollero processarlo per quel documento; e questo gli consentì di fuggire di nuovo. Lo trovano nove anni dopo, si faceva passare per libanese e aveva aperto un’attività di allevamento di polli a Chorrera, un piccolo centro agricolo a 30 chilometri da Panama. Il primo giugno ’94 torna in Italia ed entra nel carcere di Rebibbia. E poi impiega quindici anni per convincere la giustizia che il suo conto è pagato.