La fabbrica che non vuole morire

(09 settembre 2008)

La fabbrica che non vuole morire

In quarantanove si oppongono al licenziamento lavorando

1984004072.jpgL´enorme tornio verticale da dodici metri di diametro, regalo del Piano Marshall all´azienda nell´anno domini 1949, adesso dorme. Due giorni fa era sveglio, però. Pronto a lavorare un pezzo, a prepararlo per la tempra, poi per il trasporto sul carro ponte a una ventina di metri d´altezza. Era la normalità, fino all´ultimo giorno di maggio, nell´infinito hangar di via Rubattino. Prima della mobilità, delle ferie forzate, dei licenziamenti, dell´annunciata dismissione. Prima che i quarantanove operai rimasti in forze alla Innse, il vecchio reparto presse della Innocenti Santeustacchio, decidessero di resistere. Cento giorni, sono ancora lì.

In assemblea permanente, a presidiare i reparti e la portineria, la mensa e la centralina elettrica. Avanti coi turni e i pignoni, i creatori e le alesatrici. Tutti. Ingegneri e operai, quadri e impiegati riciclati in gruisti. Il compratore ce l´hanno, con un piano industriale di rilancio pronto, il padrone forse molla, il tavolo è pronto al ministero dello Sviluppo, venerdì ricomincia la trattativa per salvare il lavoro, la propria storia, la vita di quel che rimane dell´ultimo grande polo industriale ancora in attività di Milano città. L´estate è passata, forse anche ‘a nuttata.

Gronda di simboli, la storia della Innse. Le lapidi dei dodici operai deportati a Mauthausen, 64 anni fa. I macchinari in ghisa, fuori produzione e perfettamente funzionanti, col loro marchio Innocenti in rilievo. La tuta blu come divisa ufficiale, ovunque: erano in blu i tre operai che andarono a parlare a una platea di duemila persone al Festival del cinema di Locarno, il giorno di Ferragosto. Si proiettava un documentario sui ferrovieri di Bellinzona in lotta, la battaglia della Innse circolava già sul web e invitarono una delegazione a parlarne. Applausi, grancassa e raccolta fondi avviata anche in Svizzera. I soldi che servono per la mensa, quella dismessa dalla Pellegrini a inizio giugno dopo che Silvano Genta, piemontese, ex commerciante di rottami e proprietario da due anni dello stabilimento, aveva comunicato che si sbaraccava tutto. Mensa autogestita, allora, come la produzione. Tre operai del montaggio ai fornelli. Pastasciutta, fettina, affettati, insalata e formaggio. In frigo acqua, coca e birra, sul tavolo un ricettario, «per variare ogni tanto». Le mogli, a volte, arrivano ai cancelli con le torte salate. Chi ha il vicino con l´orto porta i pomodori. Per il resto si fa spesa coi fondi raccolti da una sorta di mutuo soccorso operaio: duemila euro da Operai contro, trecento dalla Fiom, altro denaro dai centri sociali Baraonda e Panetteria occupata, da Rifondazione e PcL, da qualche consigliere provinciale che ha versato il gettone di presenza. «Speriamo che tutto questo serva anche ad altri» ti raccontano passando accanto al gabbiotto che custodisce il macchinario per la cementazione e la tempra dei pezzi, preziosissimo («ce ne sono tre in tutta Europa») e quindi tenuto sotto chiave ché non si sa mai. Incazzati e orgogliosi: «Siamo qua tutti. E lavoriamo. Potevamo accettare gli ammortizzatori sociali, le offerte di qualche fabbrica qui vicino, potevamo spaccarci. Abbiamo continuato, compatti e senza imporre niente a nessuno, nemmeno i turni per pulire i cessi». I vecchi con trent´anni di esperienza e gli ultimi assunti dieci anni fa, che i trenta li hanno compiuti da poco. Motore acceso, anche se a ritmi abbassati, ovvio, nonostante i lavori commissionati dall´aspirante compratore, la Ormis di Castagneto, nel Bresciano: «Alcune aziende hanno sospeso gli ordini in attesa degli eventi. Ma abbiamo continuato a spedire, a trattare, a ricevere clienti». E senza sbandare, nonostante la morte di Giuseppe, per infarto, lo scorso luglio, nonostante la mazzata delle lettere di licenziamento per i 49 superstiti, datate 22 agosto: «Si firma il foglio in mensa e si chiedono permessi e ferie, controfirmati. Qui dobbiamo andare avanti come se fossimo in piena attività, altrimenti è finita». Soli. Soprattutto di notte, finiti i tre turni, quando tre – quattro operai a rotazione restano di sorveglianza. «Non ci sono brandine, quelle le avevano piazzate i vigilantes della proprietà a inizio giugno, quando li abbiamo cacciati e abbiamo deciso l´assemblea permanente. Che facciamo la notte? Chiacchiere. C´è la tv che i vigilantes hanno lasciato qui. Ci si appisola sulla sedia, tanto i rumori sono comunque amplificati. E gli altri dormono a casa col telefonino sul comodino, pronti a correre qui».

Il viaggio della speranza, dopo le azioni legali e gli appuntamenti saltati dal gruppo Genta, è fissato per venerdì, a Roma, al ministero per lo Sviluppo. Da via Rubattino partiranno in sette, in tuta blu naturalmente. Al tavolo: loro, Silvano Genta e Diego Penocchio, presidente della Ormis. Che spiega: «L´azienda ha potenzialità e noi abbiamo un piano serio, si può arrivare a occupare 150 – 200 lavoratori. Lavoro ce n´è e siamo pronti da subito. Ora, pare, c´è anche la disponibilità dell´attuale proprietà a cedere il passo». Lo spiraglio tanto atteso. Alla Innse restano in guardia: «Se sarà necessario, se salta tutto, occuperemo». Forse non ce ne sarà bisogno, forse gli ultimi 49 reduci sulla scialuppa di una nave che a metà anni Settanta contava seimila operai, ripartiranno ancora una volta. Senza turni notturni. E con una mensa nuova.

La fabbrica che non vuole morireultima modifica: 2008-09-10T11:05:00+02:00da sagittario290