CRONACA
11/3/2007 (7:36)
Presa la banda delle mele marce
In manette quattro poliziotti, fingevano sopralluoghi per rapinare extracomunitari. La rabbia dei colleghi in caserma: «Siete una vergogna, ci avete disonorato tutti»
MASSIMO NUMA E LODOVICO POLETTO
TORINO
Calci alla porta. «Polizia! Aprite, polizia!» Irruzione. Ci cadevano tutti. Placca metallica appesa sulla camicia, manette infilate nella cintura, Beretta 9×21 d’ordinanza ben visibile nella fondina: poliziotti veri. Lui, il capo, alto massiccio, capelli rasati, anfibi e modi duri. Sembrava un film con l’ispettore Callaghan. Entravano e buttavano tutto all’aria. Come in una vera perquisizione. Cercavano droga, dicevano. In realtà erano lì per rapinare quel che c’era di valore. Soldi, ma anche cinture, orologi, e apparecchiature elettroniche. I poliziotti cattivi queste operazioni le chiamavano con un eufemismo «sopralluoghi». L’altra sera, in due, sono andati a farne uno, l’ultimo, in casa di una coppia di stranieri: lei albanese e lui romeno. Era il destino. Loro frugavano in un appartamento al terzo piano di via Vespucci 51 e gli altri, i poliziotti buoni, li aspettavano sotto per ammanettarli. Loro si facevano commuovere, e lasciavano lì sul tavolo i 300 euro trovati nascosti in un cassetto, e i poliziotti buoni deglutivano a fatica, in un mix di rabbia e disperazione per quelle vite bruciate.
Il vicequestore che comanda la squadra è uno che i «cattivi» li conosce bene. Sa chi è il capo. Lo ha consolato quando parlava della figliastra malata. Lo ha aiutato mille volte. Ma questa è un’altra storia. Poi i cattivi escono con due cinture, un orologio da polso e un profumo. E gli agenti buoni gli saltano addosso. Non c’è reazione, né difesa, fuga, concitazione. «Che coglioni, che coglioni siamo stati…» bofonchiano i due sdraiati sul pianerottolo con le mani dietro la schiena. Un mondo capovolto. È un corteo funebre quello che fila verso la questura, sulle auto con i lampeggianti blu e negli abitacoli un silenzio di tomba. Dura cinque minuti, il tempo che la 156 nera s’infili nel portone della questura. Si spalancano le portiere ed esplode la rabbia, repressa fino allora. «Vergogna», gridano mille voci dalle finestre del palazzone inviolabile di via Grattoni. «Vergognatevi! Ci avete infangati tutti». Il capo della Mobile, Sergio Molino, posa la pistola nel cassetto, si sfila la giacca, alza il telefono e chiama il procuratore capo Marcello Maddalena: «Dottore abbiamo finito. Due li abbiamo qui. Gli altri andiamo a prenderli».
Mezzanotte. La banda dei poliziotti infedeli è tutta qui, negli uffici della Mobile. Sgomenti. Disperati. Più di tutti lo è il capo, quel Giuseppe Sofia, 39 anni, capopattuglia della «mitica» volante Dora 2. Mitica, certo, perché incrocia ogni notte nelle strade di Porta Palazzo, pusher, clandestini, disperati. Gli uomini che ci sono sopra sono veri duri. Il più duro ora piange: ha una compagna di vita, con un passato complicato ed una figliastra adolescente malata. Più in là c’è il vice: un ragazzone con i capelli rasati e due anelli di metallo alle dita della mano destra. Si chiama Daniele Di Viercio. Bello. Giovane, 24 anni, atletico, il socio preferito di Sofia. Lui non ha famiglia, è arrivato due anni fa da Napoli: dorme in caserma in corso Valdocco. Le rapine gli hanno fruttato più di 30 mila euro. Una parte li ha spesi per comprarsi l’auto nuova: un’Alfa Gt. Gli altri li ha lasciati lì, nel suo armadietto: 17 mila euro. Una pila così di banconote da 20 e 50 e 100. Confessano tutto e subito, Sofia e Di Viercio. Prima parlano con i difensori, gli avvocati Ennio Galasso e Paola Zei. Fanno i nomi dei complici. Non è una novità: i poliziotti buoni già li conoscevano. E sono andati a prenderli da poco: stesse auto, stessi sguardi, stessi silenzi.
Salvatore Majol, 27 anni, un figlio che inizia a gattonare, dice che non c’entra nulla, che è andato una volta ed è stato intercettato: «Pensavo fosse un’operazione fuori servizio. Non autorizzata. Volevo un encomio». Il suo avvocato, Lorenzo Zacchero, annuisce. Altro che encomio. Ora deve giustificare un notebook, rubato appunto durante un «sopralluogo». «Un regalo di Sofia» dice. «Non lo usava più». Ma c’è la denuncia delle vittime, una coppia di stranieri; raccontano una storia diversa. L’unico che non parla è Luigi Cicchetti, 27 anni, centralinista di un altro commissariato di frontiera, quello di Barriera Milano. Il suo legale, Valentina Zancan gli consiglia di non parlare. La guarda stupito e obbedisce. C’è ancora un persona, Giovanni Quarantiello, 56 anni. Un delinquente di piccolo cabotaggio, dicono. Il basista, la spia della banda: segnalava gli obiettivi e intascava le percentuali. E che percentuali.
Settembre 2006, il primo colpo. Dalla casa di tre pusher marocchini in corso Unione Sovietica, periferia Est della città, portano via 70 mila euro. Vanno Sofia e Di Viercio. Si trovano così bene che tornano dopo qualche mese. Ma i marocchini non ci sono più. Se ne sono andati per sempre, e senza denunciare quella strana «perquisizione». Intanto si rifanno in giro. Nell’appartamento di tre nigeriani, due uomini e una donna, zona San Paolo, «raccolgono» 30 mila euro. Prima di andarsene legano gli uomini. In mezzo, altri «sopralluoghi». Bottino da niente. Ma intanto la polizia li segue, li intercetta, persino sulle linee del commissariato. I capi della procura di Torino, Marcello Maddalena e Francesco Saluzzo, seguono preoccupati. E addolorati: «Sono giorni che stiamo male. Quei ragazzi si sono rovinati la vita per sempre».